La differenza tra me e te.

Sono le 12.05, torno ora da una seduta infinita di tre ore, trascorse sulle poltrone della mia parrucchiera di fiducia. Ho già la cervicale, il mio naso (che è come un barometro) è gelato, quindi vi comunico che è un arrivo una grossa perturbazione. Ho acceso la stufa a pellet e prima di pranzo, faccio una considerazione. Quando si va dal parrucchiere di solito ci si va oltre che per sistemarsi i capelli, anche per rilassarsi, leggere riviste di gossip, chiacchierare di ricette e sciocchezze, ricamare, darsi lo smalto. Tutte queste attività leggere ed innocue, servono per far trascorrere più velocemente il tempo delle torture. Cioè il tempo di posa della tintura, o permanente, o altre diavolerie che noi povere donne, continuiamo imperterrite nei secoli a farci fare sui nostri oramai sfibrati e stanchi capelli. Ma chi ce lo fa fare, mi chiedo sempre? Se sei mora ti tirano le pietre! No ho sbagliato, se se nata mora desideri farti bionda, se sei liscia ti vuoi fare ondulata, se li hai lunghi li tagli, se son corti metti le extension. Insomma, decidiamoci una volta per tutte! Io stessa stamane ho scurito il mio biondo platino, di due toni, ma per farlo ho rischiato di grosso. Primo: non avevo comunicato alle parrucchiere che ero sotto antibiotico, potevo anche divenire verde ramarro;, secondo, dato che è venerdì e le donne erano tutte con i colori e le tinture d’ogni variante in testa, ho respirato odori di ammoniaca e veleni da vomito violento. Terzo, per la legge del “voglio ciò che non ho”, le signore che avevano i capelli lisci han ben pensato di farsi fare la permanente, con il rischio di camera a gas, per la presenza del liquido ondulante contenente tioglicolato d’ammonio, che va ad unirsi all’ammoniaca per agire sulle particelle dei ponti di zolfo dei capelli .Terzo: ho patito un prurito in testa come avessi le pulci e i pidocchi che facevano il girotondo, da grattarmi a sangue, ma non potevo, altrimenti mi sarei fatta venire un’orticaria devastante. Ma perché noi donne siamo così “dolcemente complicate” e non facciamo come i nostri uomini? Ora qualcuno mi dirà che avendo scurito un poco i capelli, ho una trasformazione interiore in corso, un lutto da elaborare, una delusione, o una voglia di riscossa! Nulla di tutto ciò, solo volevo vedermi un tantino più scuretta, invece che il solito colore centenario alla Marilyn Monroe se mi voglio fare un complimento, alla badante di mia madre se desidero auto offendermi. Se li avessi scuriti del tutto invece avrei un amante segreto di sicuro! Se li avessi poi anche tagliati, oltre che scuriti, oltre all’amante starei pensando di lasciare mio marito. Pensate se dall’oggi al domani cambiassi anche il modo di vestire, ed andassi in giro con leggings rosa corallo, se cambiassi il modo di truccarmi, apriti o cielo: oltre all’amante ufficiale, uno di scorta, la separazione da mio marito, aggiungiamo che sto riflettendo se lasciare anche i miei figli per stabilirmi definitivamente in Polinesia, con la ghirlanda al collo! Tre ore dal parrucchiere dovrebbero essere un relax e uno staccare la spina dalla routine quotidiana, un momento per noi donne, tra consigli e risate. Invece niente è come sembra, non otteniamo il relax e ne usciamo asfissiate, claudicanti, trasformate, alleggerite nel portafogli e ciliegina sulla torta! Quasi mai il nostro uomo ci fa i complimenti: primo perché non se ne accorge, secondo (nel mio caso, non so nel vostro..) mio marito mal si adatta ai miei cambiamenti, si sente perduto e spaesato se Fabiana non è come la Carrà. Stesso taglio di capelli, stesso colore, stessa lunghezza da oltre mezzo secolo! Se invece un uomo va dal barbiere e si taglia i capelli, o si rade la barba, diciamo che è persona ordinata, che desidera apparire gradevole e dimostra amor proprio. Mica andiamo a fare il collegamento: barbiere=amante, barbiere uguale lascio il lavoro stasera e parto per il Giappone stanotte, andrò là per coltivare i ciliegi! Perché dobbiamo fare il parallelo e usare questi motivi così teatrali, se una donna cambia qualcosa di sé? Ho notato negli anni che il fattore capelli cambiati, ha molto influenzato i pensieri su qualcosa di intimo e personale che sta mutando nell’animo e nella mente di noi donne! La pensano così direi in tanti, dai giornalisti agli amici, dai compagni di lavoro alle parrucchiere stesse. E’ un vecchio adagio, un leitmotiv che son certa,ci accompagnerà sempre. Se un uomo invece compra una camicia nuova, un paio di pantaloni, dei nuovi occhiali alla moda, una cravatta monotematica, anche se per vent’anni ha sempre indossato le colorate, se indossa un paio di scarpe sportive, pur sapendo che ama le classiche io non penso immediatamente che ha un’amante. Penso piuttosto che gli indumenti erano vecchi, laceri e consunti, ed era ora che li cambiasse! Non vado ad immaginarmi che deve occultare certe macchie del peccato, che nemmeno col tioglicolato d’ammonio vengono via! Poi magari mi sbaglio, voi che cosa ne pensate?

Maschi non fatevi spaventare dalle donne

Ho ricevuto pochi giorni fa, delle critiche molto precise da un uomo di circa quaranta anni, che mi accusava di badare troppo al mio corpo ed al mio viso, abusando con creme, massaggi e trattamenti di bellezza di ogni sorta. E lunghi, interminabili week end alle terme, dove gli operatori in camice bianco provano a rigenerarmi ovunque. Sì è vero, lo ammetto, arrivando verso i quarantotto sto molto più attenta al mio aspetto fisico, ma come ho detto e scritto più volte, non voglio arrivare a stravolgermi e sembrare la maschera di me stessa. A quel punto, per spronare il gentil uomo a proseguire con me il dialogo, che si era fatto piuttosto cocente, gli ho pure confessato (senza vergogna!) di quelle due iniezioni che mi sono regalata all’inizio dell’Anno Nuovo. Iniezioni necessarie a svecchiarmi lo sguardo di trota lessata, che oramai, causa gli occhiali che uso per il computer ho assunto!Non vi dico le reazioni! Saremmo dunque noi donne che a furia di esibirci con sieri anti età, push up, alza glutei, ciglia finte, labbra al canotto, che abbiamo spaventato i nostri uomini, facendoli diventare polli di allevamento? Giriamo per casa con i cetrioli sugli occhi, le bistecche attorno ai talloni screpolati, etti di creme da renderci irriconoscibili a chiunque, bigodini in testa di notte (sembriamo Frankestein!), passiamo ore sdraiate nelle camere iberbariche delle Spa di bellezza..ma, c’è un ma!Noi donne, non vogliamo che anche voi maschi lo facciate. La colpa è solo nostra per aver contagiato anche voi, poveri maschietti incapaci di dire di no e di rimanere come natura vi ha creati.Com’è invece che rivoltando la frittata, non faccio altro che vedere a Reggio Emilia e dintorni, uomini in profumeria o dall’estetista, pronti a chiedere ragguagli e a ordinare la tal crema per le rughe, o il fango per la pancetta..Vi supplico, asciugatevi con un bell’accappatoio di cotone bianco, non morbido di Coccolino ma grezzo e ruvido, che fa tanto maschio primordiale!
Dopo, ma solo dopo il bucato fatto su voi stessi, spruzzatevi un buon deodorante al muschio selvatico o al rabarbaro Cynar,una caramella di menta piperita in bocca e voilà! Non serve altro per catturarci! Dimenticavo e ve lo chiedo per pietà: non tingetevi quei pochi capelli rimasti sulla calotta polare con tinture color nero inferno o lucido da scarpe che dir si voglia, piuttosto rasatevi a zero!

Facciamo l’amore.

Oh, amico mio impetuoso e libero,
tu danzi, canti e ridi sfidando i miei pensieri,
ondeggi leggiadro e insceni l’atto
che non ti ho ancor chiesto.
Non esiste musica che tu segua,
non vai a tempo e non vuoi ritmo,
sei un essere nuovo e fresco
che bacia e abbraccia
chiunque tu incontri per via.
Oh, acrobata di circo vissuto lontano!
Oh meravigliosa creatura!
non posso toccarti e nemmeno
sentirti, non riesco a darti le
labbra arse dal desiderio della
tua freschezza! Amami tu che lo puoi,
abbracciami, cullami e fammi
ondeggiare con te.
Tralascia per un’istante o per
un secolo le rose e le peonie,
non ti curar dell’erbetta maliziosa,
guarda oltre quel cancello e quegli ulivi.
Oh soave! Oh danzatore cortese!
Oh passional frescura
donami ossigeno e impeto.
Fai l’amore con me,come mai
hai voluto fare,
muoviti attorno alla mia pelle
in un vortice senza fine.
Prendimi per mano e fammi volare in alto,
dimentica i prati ed il granturco,
gioca con me,
che tanto ti guardo e ti bramo,
con occhi chiusi e membra aperte
al culminante attimo.

La Ballata della contadina.

Sono una petnadora, sto in campagna con le vache e i nimei, son un po tanto tracagnotta, ma con il petorale in alto e cotto sodo. Domani matina mi infilzo una sotana rossa, alle orecie metto i boclini. C’ha da venire a trovarmi il pratico. Debbo star su presto da let, debbo lavare le lasine, che spuzzollano sempre di bida di vaca, non volio che il pratico mi veda in patalia. Quando sarà nell’andito di casa mia,lo faccio incomodare in tella sala da pranso, si andiamo a sedere tutti e due sulla tomana. Quando lui si leverà il paleto’,io dala contentessa, farò un prillo. Se gli viene un buso in tello stomaco ci porto un piat di persiutto crudo, cosi’ lo ingogna giu’ nel gargarosso. Se c’a sete e vol bevere, ci do da bere del vino fresco di giasera. Ma se al vein, sa di tappo e di tino, ce lo slungo con un sospetto d’acqua intra mezzo. Se lo vuole ci do anche il sorbire, che ci piace da crepare. E se dopo aver magnè,a me mi viene un organdis, spero che lui abbia adietro i perseguitati, non volio rimanere incintola. Mia mama mi ammassa,se le scodello un anuodo, son troppo zovna! Volio metere le fodrette nuove al let, cosi’ figura melio e a lui ci faccio perder la zucca. Lo spetterò sull’ussio di casa e quando arriva sulla sogliola ,ci do un bacio in tella bocca. Se lui dall’imbarasso pippa una sigaretta, gliela inpio io, con i miei fulminanti. Ma se arriva alla muta quella bernarda della perpetua a sbernardare dal buso dela seradura, io spero che la fori in tun occio una sarabiga. Spero che dalla smaniola non mi venga un lant-coeur e che io non cada per terra come una ramassa.

Traduzione:

Sono una parrucchiera, abito in campagna, ho le mucche ed i maiali, sono un poco cicciottella, ma ho il seno alto e sodo. Domani mattina verrà a trovarmi il fidanzato della mia amica, indosserò una gonna rossa e gli orecchini. Dovrò alzarmi presto, lavarmi bene le ascelle, che purtroppo, odorano di sterco di mucca. Non vorrei che mi trovasse in camicia da notte e non profumata!Quando sarà nell’ingresso di casa mia, lo farò accomodare in sala e ci accomoderemo sul divano buono. Quando si toglierà il cappotto, dalla felicità farò una piroetta. Se gli verrà un attacco di fame, gli offrirò del prosciutto crudo, così lo potrà gustare, se avrà sete gli verserò del buon vino fresco di frigorifero. Ma se il vino, avesse il sapore di tappo o di tino, vedrò di diluirlo con un pochino di acqua. Se poi avrà ancora fame, gli servirò una minestra con il vino rosso dentro,che lui adora. Dopo aver pranzato, se provassimo entrambi un certo solluchero sessuale, mi auguro abbia con sé i profilattici, perché non voglio rimanere gravida, sono troppo giovane! Mia madre mi ucciderebbe se le partorissi un nipotino! Cambierò il letto, mettendo le federe pulite e stirate, così la mia camera si presenterà in ordine e a lui faro’ perdere la testa. Lo attenderò impaziente sulla porta di casa e quando sarà sulla soglia, lo accoglierò con un bacio sulla bocca. Se lui dall’imbarazzo, fumerà una sigaretta e non avrà  con sé i fiammiferi, gliela accenderò io con i miei. Dovesse arrivare all’improvviso, mentre stiamo amoreggiando, quell’invadente e curiosa della domestica, per sbirciare dal buco della serratura e spettegolare, le augurerò che una zanzara la pizzichi dentro ad un occhio. In tutta questa ballata amorosa, tra vino, prosciutto e smanie, non vorrei mi venissi un infarto,cadendo per terra come una scopa vecchia

Sanità: rimpiango il Medico Condotto.

Rimpiango amaramente l’antica e obsoleta figura professionale del caro Medico Condotto di quando ero una bambina. Egli, possedeva infarinature generali in tutte le discipline sanitarie senza limitarsi e sapeva districarsi in ogni situazione complicata gli si presentasse davanti. Questa rassicurante e sempre presente figura è purtroppo sparita nel corso dei decenni, rimanendo comunque viva nella memoria di ognuno di noi. E’ stata sostituita dai medici generici, dalle Asl, le Usl, la Saub, dai Cup, dalle guardie mediche, dal Pronto Soccorso, dal 118 nei casi più gravi. Esistono anche le quattro ambulanze con le loro croci: verde, azzurra, rossa e bianca. Nostalgica qual sono, ammetto che mi manca nel medico di oggigiorno quella familiarità e pace, che il mio Medico Condotto di Rivalta mi trasmetteva: arrivava in bicicletta, anche nel cuore della notte, se avevo la febbre alta. Veniva chiamato dal mio papà che anch’egli in bicicletta, lo andava a svegliare. Lodevoli le figure dei medici di oggi! Insostituibili per la nostra precaria salute, ci aiutano quando li troviamo reperibili, quando non sono sostituiti o quando ci fanno la grazia di venire a visitarci in casa, a patto che si abbia la febbre quasi a quarantadue e un piede già nella fossa. Sovente però si limitano a prescrivere al telefono: antipiretici, antispastici, antibiotici (ma non bisogna accertarsi di persona della malattia, prima di prescriverli?!), antiemetici, antidolorifici, antitosse… e tutti gli “anti” possibili ed immaginabili pur di evitare la fastidiosa visita domiciliare. Posseggono il dono della “diagnosi a distanza”, beati loro! Se ne servono come consuetudine, per riuscire a gestire le migliaia di pazienti che hanno in carico e che vogliono continuare a tenere, nonostante possano rinunciare liberamente a qualche centinaia, ma le percentuali recepite su ogni paziente, ahime’! frenano la scelta. Dimenticato ed archiviato il saggio Medico Condotto, che alla bisogna si trasformava anche in levatrice, conduceva se stesso a visitare i suoi clienti, senza distinzione di classe sociale. Visitava tutti quanti:ricchi o poveri recandosi nel suo paesello ed in quelli limitrofi. Svolgeva il suo lavoro come una missione, era sempre a disposizione ventiquattro ore su ventiquattro e raramente si lamentava.. Conosceva tutti i segreti ed i malanni delle famiglie, un po’ come l’altra scomparsa figura del Parroco di Paese, dava consigli agli Sposi fungendo anche da consultorio familiare e si direbbe oggi, terapeuta di coppia. Spesso il Medico Condotto svolgeva anche la funzione di maestro d’appoggio per i bambini, li seguiva nei compiti pomeridiani prestandosi anche a far loro da Padrino per i Sacramenti Cristiani.Oggi anno 2013, i medici generici sono più che saturi come numero di pazienti da gestire ma teniamo presente che non fanno nemmeno un’iniezione (c’è l’infermiera per questo), si occupano solo e soltanto di linee base generiche, oltre non vanno. Siamo perciò costretti a rivolgerci ad uno specialista, anche se un consiglio in più potrebbero sicuramente darcelo. Va da sé che con i tempi biblici della mutua attendi mesi e mesi, diversamente impieghi un quarto della stipendio se vuoi essere ricevuto “a pagamento” in un paio di giorni. Noi ammalati, non più pazienti ma impazienti e rattristati da approssimative diagnosi e rimedi, reclamiamo la nostra giusta dose di attenzione e cura, pagando salato per ottenerle, non solo in termini di trattenute nelle buste paga. Il medico, nel quale noi tutti riponiamo fiducia e stima, non dovrebbe arrabbiarsi e neppure urlare al telefono perdendo le staffe, se qualche paziente è più impegnativo di altri, usando la scusa che per rispondere alla sottoscritta, sta rubando tempo prezioso a chi in quel momento gli è seduto di fronte. Esistono le segretarie e le infermiere in quasi tutti gli Studi medici di oggigiorno, si può richiamare e concordare un appuntamento di persona o telefonico. Dopotutto la delicata professione che svolgono, da loro scelta e giurata secondo un codice deontologico ben preciso , non gliel’ha ordinata il Dottore….

Quando l’abito dovrebbe fare il monaco.

Rientrando stamattina presto in automobile dopo aver accompagnato mia figlia alla Scuola Materna, canticchiando con la radio “Canzoni Stonate”, ancora un po’ assonnata, scorgo in lontananza su di una bicicletta, un abito nero lungo sino ai piedi, accollatissimo, dal quale spunta una fascetta bianca rigida. le maniche sono lunghe fino al polso, l’abito è abbottonato dal collo alla cintura. Ma come, mi chiedo? Un abito nero che pedala in tutta fretta senza esitazioni? Spalanco gli occhi, inforco bene gli occhiali per vederci meglio, timorosa di avere le traveggole, poi penso che non e’ carnevale e nemmeno Halloween, infine realizzo che sotto a quell’abito c’è una persona di sesso maschile. Ebbene sì, cari lettori e lettrici, e’ un anziano e stimatissimo Parroco di Reggio Emilia, che ancora oggi nel duemilanove, con le mode e i tempi che corrono troppo velocemente, indossa l’abito talare, con tanto di clergyman bene in vista ed un’impostazione regale nell’indossarlo. Fiero e orgoglioso noncurante degli sguardi di ammirazione e stupore che senz’altro suscita in noi che lo osserviamo, se ne va tranquillo per la sua strada. La mia osservazione a questa persona e a pochissime altre oramai in via d’estinzione, si traduce in stima profonda e rispetto, andando ben al di là di qualsiasi credo religioso o non religioso. Di questi tempi è veramente difficile se non inconsueto, incontrare per strada un sacerdote vestito da sacerdote, personalmente non riesco più a distinguerli. A volte, si potrebbe incorrere nel pericolo di fare gaffes con loro, non avendo nessun segno di riconoscimento, nemmeno la spilla a forma di Crocefisso appuntata sul bordo della giacca o della camicia, di solito azzurra. Non vorrei apparire troppo all’antica o fare retorica, ma credo che ognuno di noi, a seconda del ruolo che svolge all’interno della nostra società, dovrebbe avere su di se’ un segno di distinzione. Così come al Medico e’ richiesto e gradito l’uso del camice bianco, così i Carabinieri e le forze dell’ordine hanno le loro divise, gli operatori del settore alimentare le loro cuffiette in testa e i guanti, i volontari delle ambulanze le loro uniformi a seconda della Croce che rappresentano e via discorrendo. Non mi sembra assolutamente spersonalizzante e troppo formale, indossare l’abito giusto al posto giusto, o il cartellino di riconoscimento sopra il taschino della giacca, o qualsiasi altro segno inconfondibile e tranquillizzante per noi. Non reputo certo professionale e affidabile quel Medico, che puntualmente esegue i prelievi del sangue con camice bianco sempre sbottonato, dove spunta un folto pelo per niente curato, senza guanti sterili, senza calze bianche, con zoccoli del Dottor Scholl’ s di trenta anni fa. Non mangio volentieri il pane o la carne, che mi viene servita dopo aver fatto cassa, toccando le banconote del cliente precedente,ovviamente senza l’uso di guanti sterili. Non rimango  estasiata nell’entrare oggi in certi Istituti Bancari e vedere impiegate che sembrano uscite dal Bagaglino di Roma, o impiegati maschi senza giacca e cravatta con barbe incolte e capelli unti e bisunti Anch’ io ho lavorato in Banca per quasi 18 anni e confesso ora, che sarei stata ben felice di indossare un tailleur o un tubino elegante con giacca, magari uguale alle altre mie colleghe. Sono favorevole alla proposta di reinserire nelle Scuole Elementari l’uso del grembiule per i nostri bambini, ottenendo una parità ed un’uguaglianza per tutti. Si eviterebbero quelle inutili spese per abbigliamento firmato, che creano nei nostri figli ancora in tenera età, solo rivalità, invidia, cattiveria, voglia di essere più bello e alla moda del proprio compagno di banco, in un’assurda e dannosa gara, per la loro psiche e in uno scialacquare soldi inutilmente per noi genitori. Questi piccoli bambini diventeranno dei potenziali adolescenti sempre pronti a chiedere e ad ottenere oggetti di ogni tipo, consci che se non li possiedono non sono nessuno o peggio ancora! sono considerati degli sfortunati, per usare un eufemismo. Semplicità dunque, ma gioia e fierezza nell’indossare qualcosa, fosse anche un piccolo segno, che ci faccia capire subito, in che modo possiamo essere utili agli altri.

Commento del capo cronista dottor Davide Nitrosi:
D’ accordissimo con Lei. E’ vero che l’abito non fa il monaco, ma è anche vero che oggi più di ieri l’abito spinge il monaco a comportarsi da monaco.

Noi bancari, pezze da piedi.

Carissimi lettori e lettrici del Resto del Carlino, ho quarantaquattro anni e lavoro in un noto e stimato Istituto Bancario di RE da ben diciassette. Durante questi anni ho prestato il mio servizio di Cassiera, lavorando allo sportello a contatto diretto e quotidiano con il pubblico Reggiano e non, traendone grande motivo di orgoglio e soddisfazione morale ed economica. Sino ad oggi. Penso e credo anche con buoni risultati, in merito alla mia serietà e (senza falsa modestia), alla mia oramai datata professionalità. Riconosco e tutti lo sappiamo che il momento dei mercati non solo azionari, non è dei migliori, i prezzi sono alle stelle e siamo costretti a doverci confrontare ogni giorno con altre Banche e colleghi, che cercano di essere in tutti i modi più concorrenziali, offrendo alla clientela condizioni, tassi e prodotti che solo all’apparenza sembrano migliori dei nostri. E fin qua pazienza, fanno il loro lavoro come noi, a fine mese devono portare a casa lo stipendio e dare vitto e alloggio alla loro famiglia. Come noi lavorano, cercando di dare il meglio, tenendo conto che si deve rispettare ogni anno l’amato e odiato budget, che come una spada di Damocle incombe sulle nostre povere e stanche teste. Fatta questa doverosa premessa, ci sono ancora persone, uomini e donne, ragazzi e ragazze, dirigenti ed operai, che oggigiorno si permettono con aria di sfida e maleducazione, di entrare in Banca e trattare impiegati e dirigenti come delle qualsiasi “pezze da piedi”. Non pensando nemmeno per un attimo che non stiamo giocando a Monopoli, ma stiamo lavorando con la testa ed i numeri. La nostra soglia di attenzione non può abbassare la guardia mai, a fine giornata la Cassa e la contabilità della filiale devono quadrare sempre e comunque. Abbiamo lo sguardo e gli occhi per ore ed ore rivolte ad un monitor, i cervelli concentrati per non dare risposte errate, non ce lo perdonerebbero mai. Alcuni non realizzano che stiamo gestendo, governando e coccolando i loro soldi e risparmi, cercando di farlo al meglio delle nostre capacità e strumenti che le Direzioni ci danno. Tutto questo nonostante il marasma che si sta creando, in questo duemilaotto di fuoco! Mi auguro che questi reduci da Oxford, si rendano conto del male psicologico che possono farci e del non rispetto che ci portano, usando spesso termini offensivi e denigranti. Basta un sorriso ed una parola gentile per farci sentire esseri umani, persone, non numeri o matricole che stanno lavorando per loro. Quando avranno compreso che non siamo noi i responsabili di tutta questa situazione di malcontento generale, credo che passeranno molti mal di testa e rabbie inutili. A loro, che si comportano male e si rodono il fegato, a noi che subiamo in silenzio le offese. Timorosi e spaventati con i tempi che corrono, di perdere il posto di lavoro o venire trasferiti, con la solita scusa ipocrita e fasulla, che stai facendo carriera in una filiale ( forse in corriera!) lontana da casa e dalla nostra famiglia. Un tempo il mio povero papà contadino, quando doveva recarsi in Banca, si faceva la barba ed il bagno, si cambiava la camicia e per rispetto all’impiegato, metteva sempre in bocca una caramella di menta. Una volta arrivato davanti al Cassiere si toglieva il cappello. Oggigiorno nessuno di noi pretende tali attenzioni e riguardi, non vogliamo la fanfara ed il tappeto rosso quando i clienti entrano, ma l’educazione, il rispetto e la gentilezza non devono mancare mai.

(Pubblicato sul Resto del Carlino, pagina locale “noi Reggiani” anno 2008).

Vizi e virtù di esseri umani bene in carne.

Sono nata nei mitici anni sessanta, più precisamente il sei giugno del millenovecentosessantaquattro. Credo che tra tutti i decenni da me vissuti sino ad oggi quelli che vanno dal millenovecentosessanta al millenovecentoottantacinque circa, siano stati i più importanti e meravigliosi, pieni di sorprese e di vita vera e non virtuale. Gli anni sessanta in particolare, hanno segnato un’epoca, lasciando una grossa impronta nel mondo. Non mi riferisco solo come qualcuno potrebbe pensare, alla nascita dei Beatles, l’undici settembre millenovecentosessantadue. Per conferire con voi di aspetti più terreni e non di fenomeni di massa a livello mondiale, ricordo bene, che per parlare con qualcuno cioè scambiare idee, saluti, prendere accordi o dimostrare qualcosa, si andava a suonare il campanello, oppure si scriveva una lettera o nelle urgenze, si mandava un telegramma. Ci si ritrovava attorno al tavolo per la Sagra, sfoggiando un abito nuovo. Era d’obbligo il sacro rito del pranzo di Natale e di Pasqua, durante il quale i quarantacinque commensali, quasi tutti parenti tra loro, potevano guardarsi nelle palle degli occhi e capire parecchie faccende. Venivano festeggiati i Battesimi, le Comunioni, le Cresime, con relativi rinfreschi più o meno abbondanti. Si ufficializzavano i fidanzamenti, le feste di Laurea, gli agognati diciotto anni, si celebravano matrimoni ed i funerali, sempre dandosi la voce l’un l’altro o scrivendo le partecipazioni all’evento. Se si voleva essere sbrigativi come minimo si faceva una telefonata con l’ausilio del primo telefono Unificato Bi grigio, dotato di tastiera rotonda a disco, dove a volte, il dito ti si incastrava dentro! Che tempi pazzeschi, mia madre arrivò a mettere un piccolo lucchetto agganciandolo nel numero uno, per impedirmi di fare dieci telefonate in un giorno da un’ora l’una, sperando così di non far lievitare la bolletta! Ma io, aiutata dalla banda bassotti (i miei amici), avevo imparato a comporre il numero ugualmente e quindi..Ci si vedeva di persona, si usavano voce e movenze corporali, eri facilmente interpretabile dal tuo/a interlocutore. Se provavi a fingere un’emozione, dopo poco qualche tic nervoso ti smascherava e ti tradiva, perciò occorreva salvarsi in corner. Affrontavi l’avversario a viso aperto, senza artifici a parte un poco di cipria e rossetto, senza filtri, senza schermo di protezione e senza maschere: tu e l’altro, usando le varie espressioni, cambiando l’inflessione della voce, abbracciando più o meno forte l’altra persona. Vi era un altro importante momento di aggregazione, tipico dei Paesi: la Santa Messa della domenica, ritrovo quasi obbligato per ascoltare non solo la parola di Dio, ma anche per informarsi di tutte le novità del Paese. Il momento più bello, quello del gossip, avveniva sul sagrato della Chiesa: prima, durante (per chi fumava e non resisteva sino alla fine) e dopo la funzione. I nostri padri e nonni si ritrovavano anche al mercato settimanale del martedì, per discutere e concludere affari. Si informavano a quanto era il granoturco ed il fieno, sapevano se Tizio aveva bisogno di acquistare da Caio, una bella scottona e se l’uva avrebbe dato un buon vino. Bei tempi! Tempi di parole, dette con la voce, accordi siglati con uno sputo nella mano. I ritrovi tra noi ragazzi e ragazze, per scambi di opinioni religiose e non, avvenivano all’Oratorio, dove ci chiedevamo il senso della vita e il mistero della Santissima Trinità. Ricordo i giochi a briscola, a tombola, a scala quaranta al Bocciodromo di Rivalta (RE, ndr) i primi timidi “ganci”alla fermata del tram o alla gelateria “La Romana”. Poi vi erano le classiche e numerose feste in casa, quelle dove trascorrevi tutto il pomeriggio ad imburrar tartine, tagliate a mano triangolari e farcite con la fogliolina di prezzemolo. Altre epoche? Cose dell’uomo di Neanderthal? A queste luccicanti feste, alle quali si veniva invitati a voce, per passaparola o al massimo con un bigliettino scritto a mano, messo nella cassettina della posta, ci si divertiva parecchio ad ascoltare buona musica, ballando stretti stretti i lenti, con il ragazzo più grande che ti piaceva un sacco e che finalmente, si era deciso ad invitarti a ballare! Anche in quelle gioiose e solari occasioni, con una chitarra suonavi, stavano nascendo i primi stereo neri, mentre i ragazzi più intonati cantavano a squarciagola“Ti amo” di Umberto Tozzi in quella torrida estate del millenovecentosettantasette. Potevamo guardare negli occhi tutti quanti, sorridere o stare in un angolo ad ingozzarci di tartine e pastine dolci, se ci annoiavamo, si riusciva a respirare nell’aria l’amicizia vera o l’invidia palese. Noi ragazze percepivamo se c’era gioia o tristezza e se qualcuna di noi aveva il ciclo mestruale e stava male, le altre amiche ad aiutarla, dandole magari un Optalidon per farle passare il mal di pancia e trascorrere così qualche ora in allegria. Ed oggi, amici miei, siamo ancora capaci di dare una stretta di mano? Suoniamo ancora il campanello per invitare la nostra migliore amica a cena, o abbiamo paura di disturbare? Come ci comportiamo con gli auguri del compleanno, li scriviamo in bella grafia a mano, su di un bel biglietto personalizzato per l’occasione? Lo recapitiamo di persona o lo spediamo con tanto di francobollo leccato, via posta ordinaria?Le risposte le conosco e sono quasi tutte negative, mandiamo una mail, un sms, un tweet, un selfie e buonanotte ai suonatori. Belle domande mi faccio, alle ventidue di sera! Bei quesiti mi pongo, nella speranza di avere pareri e osservazioni anche da voi. Con la nascita del primo cellulare, nell’anno millenovecentottantacinque, il famoso Dyna Tac ottomila x, un mattone che pesava kg. 1,130 senza display con la sola funzione di comporre il numero, chiamare e rispondere, tutto cambiò profondamente. Trentacinque minuti di autonomia e dieci ore per ricaricarlo. Lo si portava in giro dentro ad una valigetta che ti faceva venire male alla cuffia dei rotatori, ma era comunque solo un telefono. Il telefono, punto e basta. Dentro non c’era il mondo e i pianeti, serviva per telefonare e ricevere. Peccato, che da quel prototipo della Motorola, ne sono seguiti a migliaia, ognuno con tante di quelle funzioni che non ci sarà più bisogno nemmeno di andare in sala operatoria a togliere un’appendicite: il chirurgo lo farà con il cellulare, se poi invece dell’appendice, il mostro è scarico e il chirurgo ti toglie la prostata, ancora sana e funzionante pazienza! L’ho odiato, sono stata una delle ultime ad acquistarlo, ed ora, sono dipendente da questo mezzo freddo ed impersonale e non riesco a disintossicarmi. Ci avevo provato anni fa, dopo averne distrutti alcuni, cadendomi spesso, sbadata come sono! Mi ero ripromessa di non acquistarne più, ma è più forte di me: non riesco a staccarmene mai, nemmeno quando sono in bagno sul water o in ospedale per un prelievo del sangue. La mia rabbia e le mie domande comunque vanno tutte in una direzione: come faccio ad esprimermi con l’interlocutore, con uno Short Message Service. Che poi, alla fine della fiera, non sono più sms ma diventano temi liberi in lingue sconosciute, un botta e risposta continuo, a tamburo battente per mezz’ora: come stai? Dove 6? C.C.F:? Scendi g.;TVTB, io n, tu s.,ciao vez, cmq ti lve, ke cosa dici? Tranchi. s.s., A ke time? Perché sto usando, come i ragazzini tutte quelle faccine simpatiche ma impersonali, per esprimere ciò che sento in quell’istante? C’è una faccina gialla per ogni sensazione: rabbia, affetto, sberleffo, pianto, risata, caffè, amore, linguaccia, amicizia, occhiolino..ma è mai possibile che io, nata nel lontano millenovecento sessantaquattro, abituata a toccare l’altro/a, (non fraintendetemi!) ad abbracciare o a stendere con un’occhiataccia, chiunque non mi vada a genio, debba ricorrere sempre di più a ‘sti sms? Poi, aggiungo e termino, per fortuna che mi rifiuto d’iscrivermi a Twitter, Facebook o altro, cinguetterei tutto il giorno e sono pure stonata! Digerisco a malapena volentieri i blog, salotti virtuali di chiacchiere: io scrivo una lettera e tu mi rispondi, a patto che poi a voce ne parliamo e svisceriamo tutti i dubbi virtuali. Non sopporto Facebook e non vedo di buon occhio il suo inventore! Con la sua folle e miliardaria idea, ha impedito il proseguo sereno e razionale delle relazioni umane, ha fatto sì che la gente per ritrovarsi deva navigare, (si dice così?) sul suo coso virtuale. Ha contribuito a far emergere depressioni e tristezze latenti, invece di escogitare una maniera per relazionarsi di persona. Vi mettono di tutto, anche tua moglie mentre partorisce a gambe aperte, anche la suocera mentre esala l’ultimo respiro. Non c’è limite a questa tristezza umana, che avrà sì milioni di iscritti, ma non so fino a che punto siano realmente contenti di parlarsi via video. Ho bisogno di ritornare alle mie origini, quando arrossivo se mi corteggiavano, ma ne ero orgogliosa, si vedeva dai miei occhi e dal mio sorriso! Ma come faccio oggi, cioè domani a far capire a te, che mi piaci molto e mi attizzi? Non c’è ancora la faccina gialla con il fuoco, ma dopo questo post forse la metteranno! Come posso dimostrare a mio marito, ai miei figli, alle mie amiche, a mia sorella che le adoro e che voglio loro un mondo di bene? Rieduchiamoci a vicenda e ritorniamo a suonare quel campanello, troviamo cinque minuti di tempo per andare fisicamente a far visita alle persone. Usiamo di più e a proposito la nostra voce, creata per ad esprimere tutto quello che sentiamo. E’ troppo comodo, usare sempre e solo i messaggini, teniamoli solo per brevi e concise comunicazioni:domani ventotto febbraio anno duemilaventidue, funerale di Pinco Pallino, Chiesa di S. Girolamo, ore quindici seguirà rinfresco. Non mancare. Per tutto il resto, c’è la voce ed il nostro corpo, che sa muoversi e sa farsi interpretare molto meglio di uno Short. O no?

Terremoto: cambia il nostro punto di vista.

Le scosse di terremoto che dal venti maggio ci perseguitano senza tregua, stanno generando uno stato di tensione e paure più che legittime in tutti noi. I sismologi precisano che le scosse non sono terminate, non sanno quando termineranno e potremo stare tranquilli, di sicuro non sarà una situazione che si risolverà in poco tempo, purtroppo! Oltre al dolore e allo smarrimento per i nostri vicini di casa, che da un momento all’altro, si sono trovati senza più famigliari, senza una casa, un’automobile, un lavoro, vi è impotenza e siamo inermi di fronte alla forza impetuosa della Natura. Con queste manifestazioni e segnali forti e tangibili, sono portata a pensare che il Pianeta Terra, stia ribellandosi ai nostri stili di vita. La Natura non conosce il colore della pelle e lo stato sociale, non guarda in viso l’età e non controlla con il redditometro, non fa differenze di Paese o Nazione. Colpisce e basta con la forza impetuosa di chi vuole punire, dimostrando che noi miseri e piccoli esseri umani, alla fine della fiera non siamo niente e nessuno per decidere. Di fronte ai cataclismi, agli tsunami, alle devastazioni di intere comunità, ripenso alla seconda guerra mondiale, non vissuta in prima persona, ma imparata a memoria da mio padre, che me l’ha raccontata per tutta la sua vita, ogni giorno come una favola, sin da quando ero piccina. Conosco ogni particolare di quei sei anni di guerra e morti, potrei ripetere a menadito quello che lui e tanti altri giovani ragazzi, hanno dovuto subire, fucilate comprese e congelamento al fronte, dove anche una coperta strappata poteva salvare una vita umana. Andando a visitare Cavezzo, Reggiolo, Medolla, Finale Emilia, Rolo e le altre zone limitrofe, ho provato la sensazione che tra quelle macerie fossero scoppiate le bombe, non mi sono più ritrovata a casa, era come se io fossi dentro ad un film dell’ orrore. La paura e l’angoscia mi hanno preso alla gola, un nodo mi paralizzava impedendomi di compiere qualsiasi azione o proferire parola, di fronte a tutto ciò che i miei occhi stavano captando. In quegli istanti, ho realizzato che nemmeno la crisi economica, l’ IMU da pagare, le bollette lievitate, la benzina salita a livelli inauditi, sono situazioni lontanamente paragonabili a questa sciagura. Se ce lo eravamo dimenticati, in questa vita di stress e corse fino all’infarto, ci ha pensato il terremoto a farci ricordare che siamo di passaggio tutti quanti. Le nostre vite, logore e difficili da condurre, sono appese ad un filo sottilissimo e oramai liso. Cerchiamo di renderlo il più leggero e dolce possibile questo passaggio terreno, vivendo ogni istante come fosse l’ultimo, dando amore e sostegno a chi ne ha bisogno, riducendo in macerie solo le sciocchezze, le cattiverie gratuite e le fatue vanità, che troppe volte invadono i nostri animi.

Stronzi o cattivi?

Mi offre lo spunto per sviluppare questo tema, Stefania, che in merito alla seconda parte dell’intervista che ho “subito” dalla Bignardi, mi dice “Io non so essere stronza, mi manca la giusta cattiveria”. Queste sue parole mi fanno riflettere parecchio, non amando la parola “stronzo” e dovendola usare diverse volte nel corso di questo post, la sostituirò con la parola “striminzito”. Personalmente non credo che per essere striminziti occorra essere cattivi, non vanno di pari passo i due aggettivi qualificativi usati al negativo. Si può essere striminziti solo in determinate occasioni,non con tutti e si colpisce mirando bene l’obiettivo “persona”. Striminziti non si è sempre e tutti i giorni, a tutte le ore di tutto l’anno! Si usano certi toni, certi eufemismi,certe sdolcinerie, si finge di sorriderti davanti e ti trombano dal dietro, con una nonchalance elegante e subdola. Questa potrebbe essere di primo acchito la definizione più calzante che mi viene in mente per riferirmi allo striminzito. L’essere umano cattivo/a invece lo è sempre non finge, lo è con tutti, non può fare diversamente e non sa progettare a priori l’atto di stronzaggine acuta, riversata con goduria sul bersaglio giusto. Non su un altro, con il quale può dimostrarsi al contempo, carino e molto gentile, nonché accattivante, altra leggera variante dello striminzito. Il cattivo per eccellenza non è dotato di un’intelligenza eccezionale, o quantomeno la usa e la dosa molto male, lo sento come un essere molto rozzo e grezzo, che spara cattiveria a vanvera, anche laddove non ce ne sarebbe bisogno. Capace di compiere azioni grossolane, si avvale di un linguaggio molto forte e deciso, sa come farsi mal volere, a volte può chiedere scusa pentendosi del gesto compiuto. Lo striminzito no, è arguto, perspicace, sa qual’è il punto debole dell’avversario e affonda la lama nella piaga elegantemente, quasi sempre sfoderando un sorriso beffardo. Abbino la stronzaggine (nonriesco a sostituire questa parolaccia!) soprattutto al genere femminile, non me ne vogliano le mie sorelle in Eva! Colloco la cattiveria invece in tutti e due i sessi, se poi una persona oltre che striminzita è anche cattiva le faccende relazionali si complicano maggiormente. Cattivi lo si può diventare in seguito a vicende molto dolorose accadute nel corso della propria esistenza. Successivamente si potrebbero sviluppare astio e livore, aggressività, violenza, ferocia, e altri stai d’animo non riconducibili alla stronzaggine pura e semplice. Trovo che chi si comporta da persona striminzita abbia questa peculiarità sin dalla nascita, ereditata dai genitori o da chissà chi, ma l’ombra e i primi sentori si intravedono già in tenera età, per poi coltivarla in adolescenza, conclamandola nell’età adulta. la persona striminzita può anche aiutare un altra persona in gravi difficoltà di salute, o se la vede sdraiata per terra, l’essere umano cattivo non aiuta nessuno. A meno che, ma qui entriamo in un meandro molto complicato, non ne tragga un enorme beneficio per se stesso. Per guarire da questa peculiarità non saprei che cappello mettermi, se ce l’avessi come costante della mia vita. Non saprei se rivolgermi ad un Santo per guarirne, ad un medico, al Parroco o se tenermela ben sapendo di possederla. Diverso è il problema della cattiveria, che se mal gestita può sfociare in perfidia sino a far compiere al soggetto cattivo, atti e gesti dei quali potrebbe amaramente pentirsene. Il cattivo per eccellenza, i film, i libri, i racconti ce lo insegnano: ci sono sempre i buoni ed i cattivi, in genere sono i buoni che vincono alla fine. In genere il bene vince sul male, ma contro la st…..aggine poco si può fare. Colui che riveste il ruolo reale di “cattivo” può anche arrivare ad uccidere, lo striminzito in genere sta dietro le quinte e manda avanti il cattivo per manovrare con stronzaggine i fili. Non mi sento perciò di appartenere a nessuna delle due categorie, ma se dovessi darmi un brutto voto me lo darei per la stronzaggine che a volte ho usato e uso, in dosi lievi e sporadiche. Ma attenzione! Solo con chi lo è con me per primo, allora reagisco e qualche battuta pungente mi scappa. Altro non saprei fare, altro non voglio fare, dal momento che non sono una persona cattiva. Anche quando ho ricevuto tanto male non ho reagito con cattiveria, ma ho incassato, mettendo “le pive nel sacco”. Che poi il mio sia un atteggiamento giusto e risolutivo questo non lo so, so per certo che tra i tanti difetti che ho, la cattiveria non mi appartiene. Forse su questo ci dovrei lavorare un poco, non mi piace per niente essere striminzita, anche se qualcuno/a lo meriterebbe molto di più di quanto io non sia stata. Aspetto vostre sensazioni e pareri, che mi auguro siano costruttivi e sinceri come sempre. Buon appetito a tutti, anche se il galateo non lo prevede, ma qua siamo tra amici…

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